Gelosia e pesto

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Basilico
Parmigiano
Pinoli

Scrivo veloce sulle note del telefono.
“Olio e sale li ho”, faccio tra me.
“Ok, andiamo?”
“Pronto!”, mi dice lui. E inarca la schiena, il petto in fuori, le braccia rigide lungo le gambe, il mento in su, che sembra un bimbo, un bimbo che gioca a fare il soldato; a fare il grande. È qualcosa che in alcuni giorni mi innervosisce. In altre, mi scatena una dolcezza che parte dallo stomaco e arriva alla gola. Ma faccio finta di niente, per non dargli soddisfazione; o per non dargli troppo e basta. Sono una campionessa in questo: di una rigidità che solo raramente si concede tregua.

Lui dice che ci sta bene sulla corda. Io gli dico che di fare l’equilibrista alla fine ci si stanca. Ma lui fa no con la testa, e sembra di nuovo un bambino, indifeso. Poi si fa serio.
“Stancarmi di te?”
Lo guardo mentre mi allaccio le scarpe seduta su una sedia, proprio accanto al portone.
“Non ci si stanca delle cose belle, me lo hai detto tu, ricordi?“, continua.
Ci si stanca eccome. Lo sappiamo tutti e due: siamo entrambi fatti di parti di “cose belle“ condivise con qualcun altro e che, nonostante tutto, si sono sciupate. Non sono bastate per farci restare.
Ma non glielo dico.

Prendo le chiavi di casa dal posacenere a righe e usciamo. Io non ho mai fumato: ci ho provato una sola volta, da ragazzina, insieme una compagna di scuola. Ci eravamo chiuse nel bagno di una discoteca per paura che sua sorella, che ci aveva accompagnate in macchina, potesse scoprirci. Cosa che comunque è accaduta, quando lei è svenuta e si è fatta un profondo taglio sulla fronte battendo su un angolo del porta carta igienica. Da quella volta non ci ho più provato. Lei invece fuma: si diverte a formare piccole nuvole di fumo che le coprono il volto, e una piccola cicatrice bianca sulla fronte.
Lui i suoi ammezzati al caffè ormai li riserva ai momenti di rabbia, di sconforto, di stanchezza, e comunque mai in casa; così nel posacenere all’ingresso teniamo le chiavi, insieme a qualche spicciolo, le bollette da pagare, il bollettino della lettura dell’acqua, cose così. A volte mi dispiace abbia smesso, e glielo dico. “Potresti fumarne uno ogni tanto”, giusto per risentire il profumo che impregnava l’aria, i vestiti, gli oggetti e la sua voce quando ci siamo conosciuti. Era dappertutto, ora è l’odore che hanno i ricordi quando penso a lui. Ma per lui “ogni tanto” non ha alcun senso: se compra un pacchetto di sigari, lo finisce tutto in un giorno. Fa indigestione di sigari, come di sentimenti. E di relazioni che somigliano a uno dei suoi pacchetti, consumati con voracità; questo prima di me – almeno così dice.

La chiave gira dentro la toppa, faccio un passo e mi sfilo le scarpe sull’ingresso e poggio le buste della spesa per terra, davanti al frigo. Una calamita a forma di spicchio d’anguria, una lavagnetta su cui un giorno avevo scritto “carpe diem” a pennarello, e un post-it con la ricetta della cioccolata calda che lui mi prepara le domeniche pomeriggio in inverno: un giorno gli ho chiesto di appuntarla lì per poterla rifare quando è via, ma non l’ho mai fatta. Mi piace troppo vederlo armeggiare con il pentolino, con cacao e latte, e un cucchiaio di farina – “è questo il segreto per farla densa, ragazzina” – mi dice brandendo un cucchiaio, e guardandomi con una severità finta e una dolcezza vera. In cima alla busta, un mazzo di basilico. Ne ho una piantina nel terrazzo che dà sulla cucina, ma dopo il caldo dell’estate ha le foglie piccole, ingiallite. “Forse dovremmo buttarla via”, sogghigna lui, tirando la tenda bianca della porta a finestra. In effetti quel basilico, come tutte le piante del balcone, è morto più volte. Sembra quasi si rimettano in piedi solo per fare un dispetto a lui. Quel verbo le mie piante non lo possono proprio sopportare, e nemmeno io. Come a dire che non possono esistere difficoltà, sofferenza; anche le persone difettose allora si dovrebbero buttare via. Ma so che il suo è un gioco, anche perché quelle piante le ha quasi tutte comprate lui. “Ma mica per altro”, mi dice, “per gli occhi che hai quando torni a casa e le sistemi; dovrei farti una fotografia. In quel momento, e quando mangi la Nutella a cucchiaini. Quando mangi la Nutella a cucchiaini sei proprio irraggiungibile”.
Lui lo è quando usa una parola antica, quando mi racconta i libri; e quando si lamenta per i cetriolini, che trova ovunque: negli hamburger e nelle insalate quando si fa estate; quei “dannati” cetriolini scatenano in lui un odio profondo.

I dettagli, le piccole manie, la curva di un sorriso, la forma di una nuca, un gesto, sono le parti più piccole di cui è fatto l’amore.

Afferro il mazzo di basilico con una mano; i gambi uniti con due giri di spago che finisce in un fiocco: sembra il bouquet di una sposa. “Un giorno, sarà l’ultima cosa che faccio, ma ti inchiodo”, mi dice a volte, e prima di dirlo mi fissa in silenzio per un po’. Poi mi abbraccia quasi di prepotenza, mi stringe le spalle e le braccia rimaste rigide sui fianchi perché non hanno fatto in tempo ad aprirsi, per ricambiare l’abbraccio. Ma l’ho capito: quello è un abbraccio solo suo, che non vuole scambiare, ma solo darmi, consegnarmi.
Anche io un giorno gli ho consegnato qualcosa: quando per scherzo ha preso un cerchietto di plastica con cui stava giocherellando mentre parlavamo, di quelli che si staccano dai tappi delle bottigliette d’acqua, e me lo ha infilato al dito. Ma forse lui non se ne è accorto.

Basilico
Parmigiano
Pinoli
Olio
Sale

Dispongo tutto sul piano zigrinato del lavello, per non sporcare.
“Aspetta un attimo, metto questi di là e arrivo”, e solleva un flacone di bagnoschiuma, un tubetto di dentifricio, la confezione di detersivo tra due dita. “Non lasciarmi così a ciondolare senza far nulla, si fa insieme”, e apre leggermente le braccia. Quando cucino, non mi lascio aiutare. È una di quelle cose che mi piace fare da sola, mentre ascolto musica. E poi non mi fido, come tutte le donne dei propri compagni: ho sempre paura gli cada qualcosa, che versi l’olio per terra, cose così. “Sei troppo distratto”, gli ripeto sempre. Il che è vero. Dopotutto le paure delle persone non nascono mai per caso; come quella di essere traditi. Di essere abbandonati. E neanche quelle più piccole, come rompere un bicchiere.
“Va bene, ti aspetto”. Anche perché non so le dosi, non ho mai fatto il pesto prima d’ora. Lui sì, invece. “Chissà perché non ci abbiamo mai pensato prima. Di prepararcelo in casa”.
Arriva in cucina e mi si mette accanto, le nostre gambe si sfiorano mentre ognuno è concentrato sul suo compito – fa ancora caldo per stare con i pantaloni lunghi: lui prende un rametto di basilico per volta, ne taglia l’estremità con le dita, dove il gambo incontra la terra, e lo appoggia sopra un tovagliolo di carta fino a formare un mucchietto; il resto me lo passa con la mano svelta; io lo strofino sotto l’acqua e lo metto nel bicchiere del frullatore a immersione. Ripetiamo questa operazione finché Sergio non ha le mani vuote e il bicchiere è pieno. “Adesso il parmigiano?”. Fa sì con la testa. “Quanto?”. “Quanto basta. Si fa a occhio”.
A occhio, perché più che farlo, il pesto lo ha visto fare, dalla donna con cui aveva una relazione, quando l’ho conosciuto. Aveva letteralmente perso la testa per lei, anche se ormai non si vedevano più spesso; lei lo prendeva e lo lasciava, passavano un fine settimana insieme e poi spariva, non rispondeva al telefono e ai messaggi, per poi riapparire per soddisfare un capriccio, per riportarlo da lei quando lui, facendosi violenza, decideva di non cercarla e la lasciava nel silenzio. In me lui ha visto una scatola, una sconosciuta a cui confidare la sua solitudine, il suo tormento, a cui affidare le sue domande; io, una storia. Non sapevo allora quanto sarebbe diventata la mia. Abbiamo iniziato a vederci qualche volta, per un caffè, poi regolarmente: era sempre lui a chiamare o a mandare un sms. All’inizio non ci ho fatto caso, poi ho notato che il telefono squillava sempre di lunedì e venerdì. “Lo sai?” Gli faccio una volta, divertita da quella che pensavo una buffa casualità.
“Già”.
E rimango lì come una stupida, perché lo sapeva.
Erano quelli i giorni in cui il suo umore poteva peggiorare, o migliorare, se lei si decideva a rispondere al telefono. Io ascoltavo e dicevo la mia, quasi beffandomi di quell’amore che a me sembrava uguale a tanti altri che stanno finendo ma in cui uno dei due non si arrende. Eppure per lui era l’amore. Quello che ti porta allo stremo, quello per cui sei disposto a fare trecento chilometri per trovare una porta in faccia, quello che ti porta ad aspettare ore sotto il suo portone, come un cane fedele, vivendo nel ricordo di una carezza, nella speranza che lei si convinca ad aprire per poter incrociare il suo sguardo.
“Non puoi capire”, tagliava corto; e tagliava fuori me, da qualcosa che era solo loro, quasi lei potesse sentire i miei dubbi e per questo non si decidesse a richiamare, o a rispondere al telefono.
Ascoltavo questo amore così furioso, così scoperto, così violento, al confine con la mania, così lontano dal mio tipo di amore: composto, tiepido, rispettoso, intellettuale. Lui il suo ce l’aveva addosso, in quelle mani che si muovevano nervosamente e cercavano di afferrare qualcosa, per tenerle ferme; nelle unghie mangiate, in quegli occhi, e nel fumo dei suoi sigari. Improvvisamente mi sono ritrovata a esserne gelosa. Non di lui, ma del suo modo di amare, che ora sembrava avesse senso. Della parola con cui spiegava la loro relazione – chimica – di quelle che usava per descrivere le sue ginocchia; mi vengono ancora in mente qualche volta, solo che adesso l’umore cambia a me; come adesso, che affondo con forza il mixer nel bicchiere e sento le lame spezzettare i pinoli, il basilico emulsionarsi con l’olio e il formaggio, rendendo tutto di un verde brillante.

Anche la sua Lacoste era verde quando una volta, stufa di sentire quelle storie che iniziavano a sedimentarmisi nello stomaco, gli ho detto secca.
“È finita. Te ne devi solo fare una ragione”.
Lui mi ha guardato con odio. “Come ti permetti, ragazzina”. Avrebbe voluto dirmi, e invece è rimasto zitto a fissarmi. “Ti ho detestata quella volta”, mi ha detto tempo dopo, quando ne abbiamo riparlato.
“Deve dirmelo lei che è finita. Non si può sparire così, come nulla fosse stato.
“Te lo sta dicendo”. Quando l’amore finisce, le parole vengono per ultime. E spesso si dicono male. Prima viene un senso di fastidio. Poi si trasforma in assenza, e finisci che ti senti un estraneo.
Lui si innamorava, tutte le volte. Aveva questo istinto di amare, il bisogno a tratti infantile, a tratti disperato, di essere amato, in qualunque modo ma amato; il bisogno di dirlo a parole, con tutte le parole che conosceva e che forse sperava potessero fare da colla tra lui e il suo amore di quel tempo. “C’è qualcosa di me che in un primo momento piace molto; ma alla lunga delude, non so come”.
La paura di essere una delusione – per me – ce l’ha ancora; io, quella per delle parole che ha usato troppo spesso, io che invece ne dico troppo poche, perlomeno di quelle che vorrebbe sentire.

In definitiva deve avergli fatto bene sentire quell'”è finita”. A volte devi dire le cose a voce alta perché diventino vere o, se proprio non riesci, ci vuole qualcuno che le dica al posto tuo, per scoprire che a quel suono puoi sopravvivere. Un giorno mi ha detto che lei sarebbe venuta in città per lavoro, lo aveva saputo per caso.
“Le chiederai di vedervi?”
“Ancora non lo so”.
Io non ho commentato, non ho provato a convincerlo di no. Ho semplicemente cambiato argomento.
Poi il telefono è squillato: “vieni a prendere un tè al caffè de la paix?” – gli è sempre piaciuto Battiato.
Due tazzine vuote, due bicchieri d’acqua sul tavolino – gassata e naturale. Prendiamo a parlare di giovani, di lavoro, di politica, e anche di scrittura. Ci ho messo un po’ di tempo per entrare nel ritmo vorticoso dei suoi ragionamenti, a cogliere quando saltellava da un argomento a un altro, per poi riprendere il primo all’improvviso, senza una connessione logica immediata.
Io, che ho sempre messo una distanza tra me e le persone, con lui non ho mai fatto alcuna fatica; forse era quel suo essere difettoso a mettermi a riparo dalla paura di essere giudicata; il tono della sua voce e quella pietas che applicava a sé stesso con la stessa facilità con cui la applicava agli altri – e a me – riusciva a calmare la mia irrequietezza, perlomeno a farmela mettere a parole.
I silenzi tra di noi non sono mai stati un tema. Lo sono diventati con il tempo. Per il momento siamo fortunati perché non ne abbiamo paura; perché poi la paura li trasforma in vuoti, e fa venire voglia di riempirli, di colmarli – con un anello, una casa, un figlio, un lavoro, o tutte queste cose insieme.
“Alla fine vi siete visti?”. Ho detto io dopo un po’, fissando la bustina vuota dello zucchero di canna. Avevo paura della risposta.
“Preferisco – e di gran lunga – stare qui a chiacchierare con te”. Prima di quell’inciso aveva fatto una pausa e poi, nel pronunciarlo, aveva proteso il busto in avanti, fino a toccare il tavolino, per poi tornare con la schiena sulla sedia. Aveva riso. Avrei voluto dirgli “resta, resta come il profumo di basilico tra le dita”. E invece sono stata zitta.

“Allora, cosa te ne pare di questo pesto”, faccio riemergere il mixer dal bicchiere per mostragli il contenuto.
E nel frattempo penso che bisogna fare i conti con gli altri amori di chi abbiamo accanto, con la parte di vita che non sarà mai nostra, ma che poi bisogna riemergerne. D’altro canto anche io ho la mia parte di viso – e di vita – in ombra, come il suo adesso che il cielo si è fatto nuvoloso. Quando mi vede pensosa mi viene vicino: “ehi”, mi dice solo; e anche io gli rispondo “ehi”, per dire che ci sono, che non sono altrove, magari in un ricordo.
“Mi sembra perfetto”, e poi continua: “anche senza il suo ingrediente segreto”.
“E quale sarebbe?”
“Un goccio di latte” e mentre lo dice avvicina pollice e indice a indicare che ne servirebbe solo un po’.
“Ah, io il latte non ce lo metto”
“Ah, nemmeno io, guarda!”. E poi subito: “E poi lei non ci metteva nemmeno i pinoli: dice che costavano troppo”.
Nella cucina risuona la nostra risata.
“Adesso lo copriamo con uno strato di olio extravergine”. “Mettilo tu, io ti guardo”, e sorride.
Sento la forma della sua pancia, del suo petto lungo schiena, le sue ginocchia dietro le gambe, affonda il mento sulla mia spalla e si sporge in avanti “basta così”. Le sue braccia mi cingono le costole fino a farmi un po’ male.
“Sei dimagrita”.
“Forse un pochino”.
“Oggi mi prendo io cura di te”, “e non protestare, tu protesti sempre”.

Forse, se lei non lo avesse lasciato, non sarebbe qui. Forse non mi amerà mai come ha amato lei.
Lascio che questi pensieri, che queste paure salgano, per poi sciogliersi come il sale grosso nell’acqua bollente.

“Ci siamo?”. Mi fa lui dopo un po’.
“Sì, ci siamo”.