Racconto d’infanzia (sarda)

By on

Quando ero piccola aspettavo il 2 di novembre come si aspetta la notte di Natale. Le scuole erano chiuse e ci si riuniva con i compagni di scuola per fare i “morti morti”: una specie di Halloween, ma senza maschere inquietanti o zucche da scavare. Forse un rigurgito delle invasioni barbariche, forse un modo per esorcizzare la paura della morte – anche se della morte hanno paura più i grandi che i bambini.

Mentre aspettavo che i miei amici venissero a prendermi, guardavo mia madre preparare con cura le ciotole di dolci, cioccolatini, frutta secca per i bambini che di lì a pochi minuti avrebbero iniziato a suonare il campanello a raffica.
«No, anche queste gli dai?» – qua e là affiorava il rosso rubino delle caramelle Rossana. «Guarda, te ne ho conservato un pacco intero!», faceva lei aprendo l’anta più bassa del mobile del soggiorno – quello in cui conservava i servizi di piatti del matrimonio.
Un attimo dopo il campanello suonava, io mi precipitavo per le scale e lei alla finestra della cucina: «Non vi allontanate, che ci sono troppe macchine!».

Non le ubbidivo mai, naturalmente. Ma lo sapeva.

Ogni anno in quella tiepida mattina d’autunno le strade si affollavano di piccoli eserciti “armati” di buste di plastica; l’aria carica di passi veloci sull’asfalto, di prese in giro, nomignoli e voglia di ridere forte – era una delle pochissime occasioni in cui ci veniva concesso di uscire senza essere scortati dai genitori. Era una mattina, quella, che sapeva di conquista e di prime libertà.
Tappa fissa erano le case delle nonne, delle zie e delle maestre, felici di vedere i loro pianerottoli invasi di visi rossi e allegri a cui volevano bene, e quelle delle signore scorbutiche che si negavano ogni anno eppure vedevamo muoversi tra le tende del soggiorno; e a volte ci urlavano di andare via che lì erano «tutti vivi».
In quel giorno facevamo scorte di frutta secca e dolci, ma soprattutto di avventure da raccontare in classe il giorno dopo: come quella di spingersi fino al viale più trafficato della città per andare dal macellaio che teneva dietro il bancone tante confezioni di carta con dentro una piccola salsiccia, una per ogni bambino che piombava in negozio.
Quando eravamo fortunati, riuscivamo a tirar su anche mille lire a testa; il più delle volte erano solo noccioline, caramelle e qualche merendina spiaccicata, segno evidente che, per qualcuno, quella dei “morti morti” era solo una scusa per liberare la dispensa.

A mezzogiorno, con le buste ormai gonfie, tornavo a casa e mostravo il bottino ai miei genitori: contavo gli spiccioli – sempre troppo pochi – mentre mio padre accendeva il fuoco e metteva a cuocere le castagne. Per due anni di seguito, in effetti, non ho avuto un bel niente da contare: lo stesso non posso dire dei due ragazzini che mi hanno scippato. Le mie sorelle mi prendono ancora in giro per questa storia.

La notte tra il 1 e il 2 di novembre dalle mie parti si usa anche apparecchiare la tavola per i morti; ai miei però non è mai piaciuta come tradizione: «se ci sono morti in casa io non ne voglio sapere» scherzava mia madre fingendo un brivido che le percorreva la schiena.
Come molti, però, andavamo al cimitero; il giorno di Ognissanti in città, e quello seguente nel paese d’origine di mio padre. Ci andavamo sempre la domenica, ma in giorni come quelli si faceva il giro completo: e ogni anno il giro diventava più lungo.
Mi annoiavo a morte, e non lo dico per fare dell’ironia, così fissavo mia madre e i suoi gesti, sempre uguali: andava verso il rubinetto, riempiva i vasi fino all’orlo e poi si inginocchiava sotto le lapidi; scartava un foglio di giornale e divideva garofani e crisantemi in mazzetti, uno per ogni ospite delle tombe di famiglia. Mi piaceva il rumore che facevano i suoi tacchi sulle lastre di cemento, e sulla ghiaia.
Mio padre stava in piedi, faceva il segno della croce con il pollice sul ritratto in bianco e nero di sua madre e sussurrava qualcosa: non ho mai capito cosa. A me veniva da ridere, come succede a tutti i bambini quando vedono i genitori diventare seri – o tristi – tutti d’un colpo.
A volte mi chiedevo perché alcuni dormissero in delle ville di marmo; altri tutti appiccicati, come in una casa popolare. Quelli che dormivano sotto i cumuli di terra mi facevano paura. Una volta, preoccupata, chiesi a mio padre: “Ma non li calpestiamo se ci passiamo vicini?”. Chissà, forse temevo potessero afferrarmi per un piede.

Ho pensato la stessa cosa molti anni dopo, la prima volta che ho visto il tappeto di croci del cimitero di San Lazzaro (Bologna) dalla finestra della mia stanza: avevo appena lasciato la mia terra, la mia famiglia, i miei amici per andare all’università – ma lì era la mia vita ad afferrarmi per un piede e a dirmi: «ce l’hai il coraggio di inseguire i tuoi sogni, di crescere? O ti farai paralizzare dalla paura?».
Alla fine a quelle croci non ci ho più fatto caso – in mente la frase che mi disse una volta lo zio di un mio amico per tranquillizzarmi: “Fanno più paura i vivi che i morti”. Chissà, forse ha ragione.

Intanto lui è andato a vedere se è vero.